Sri Ramana Maharshi – Insegnamenti Spirituali

Cap. III – ESPERIENZA (ANUBHAVA)

1. Che cos’è la luce della coscienza?

È l’auto-luminosa esistenza-coscienza che rivela al veggente il mondo dei nomi e delle forme sia interni che esterni. L’esistenza di questa esistenza-coscienza può essere dedotta dagli oggetti che essa illumina. Essa non deve divenire l’oggetto della coscienza.

2. Che cos’è la conoscenza (vijnana)?

È il tranquillo stato di esistenza-coscienza che è sperimentato dall’aspirante e che è come l’oceano senza onde o l’etere immobile.

3. Che cos’è la beatitudine?

È l’esperienza di gioia (o pace) nello stato di vijnana libero da ogni attività e simile al sonno profondo. È anche chiamata lo stato di kevala nirvikalpa (il rimanere senza concetti).

4. Qual è lo stato oltre la beatitudine?

È lo stato dell’incessante pace della mente che si trova nello stato di assoluta quiescenza, jagrat sushupti (lett. sonno con consapevolezza), che sembra inattivo sonno profondo. In questo stato, malgrado attività del corpo e dei sensi, non vi è consapevolezza esterna, come un bambino immerso nel sonno* (che non è cosciente del cibo datogli dalla madre). Uno yogi che è in questo stato è inattivo anche quando e intento in una attività. Questo stato è anche chiamato sahaja nirvikalpa samadhi (lo stato naturale di assorbimento nel Sé senza concetti).

5. Sulla base di quali argomenti si sostiene che gli interi mondi del movimento e della assenza di movimento dipendano dal sé?

Sé significa l’essere incarnato. È soltanto dopo che l’energia, che era latente nello stato di sonno profondo, emerge con l’idea di “io”, che tutti gli oggetti sono sperimentati. Questo Sé è presente in tutte le percezioni come il percipiente. Non esistono oggetti che possano essere visti quando l’ “io” è assente. Per tutti questi motivi si può indubitabilmente dire che ogni cosa proviene dal Sé e ritorna al Sé.

6. Dato che i corpi e i sé che li animano appaiono con tutta evidenza innumerevoli e in ogni dove, come si può asserire che il Sé è soltanto uno?

Se si accettata l’idea “io sono il corpo”*, i sé sono molteplici. Lo stato in cui questa idea scompare è il Sé, dal momento che non esistono altri oggetti in questo stato. È per questo motivo che si considera il Sé come uno soltanto.
[*L’idea di essere il suo corpo viene chiamata hrdaya-granthi (nodo del cuore). Questo nodo, che lega insieme ciò che è cosciente con ciò che è insenziente, è ciò che causa schiavitù].

7. Per quale ragione si dice che il Brahman può essere compreso dalla mente, e che allo stesso tempo che non può essere compreso dalla mente?

Non può essere compreso dalla mente impura, ma può essere compreso dalla mente pura.

8. Quando la mente è pura e quando è impura?

Quando l’indefinibile potere di Brahman separa sé stesso da Brahman e, unito al riflesso della coscienza (chidabhasa), assume varie forme, è chiamato ‘mente impura’.
Quando, attraverso la discriminazione, diviene libero dal riflesso della coscienza (abhasa) è chiamato la ‘mente pura’.
Il suo stato di unione col Brahman è la sua comprensione del Brahman.
L’energia che si accompagna al riflesso della coscienza è chiamata ‘mente impura’ ed il suo stato di separazione da Brahman è la sua incomprensione di Brahman.

9. Si può vincere, anche mentre il corpo esiste, il karma (prarabdha) che si dice duri sino alla fine del corpo?

Sì. Se l’agente (colui che fa) da cui dipende il karma, cioè l’ego, che è venuto all’esistenza tra il corpo e il Sé, si immerge nella sua sorgente e perde la sua forma, potrà mai sopravvivere il karma che dipende dall’ego soltanto? Perciò quando non c’è nessun “io”, non c’è nessun karma.

10. Poiché il Sé è esistenza e coscienza, per quale ragione lo si descrive differente dall’esistente e dall’inesistente, dal senziente e dall’insenziente?

Sebbene il Sé sia reale, poiché comprende ogni cosa, non lascia spazio a questioni duali sulla sua realtà o irrealtà. Perciò si dice che è dice che è diverso dal reale e dall’irreale. Allo stesso modo, anche se esso è coscienza, poiché non vi è nulla che debba conoscere o fare conoscere a sé stesso, viene detto essere diverso dal senziente e dall’insenziente.