Quando leggevo dei testi buddisti dove si affermavano “Non c’è nemmeno un Sé superiore”, mi arrabbiavo. Io, nell’advaita vedanta, ho seguito la via positiva, quella delle Upanishad, di Shankara, di Ramana, dove si sostiene (almeno apparentemente) che c’è un Sé superiore, che c’è l’illuminazione, ecc. Quanto mi erano antipatici quelli della via negativa che sentenziavano: “Vuoi illuminarti? È impossibile, perché tu non esisti!”. Li detestavo… Ma quando si va oltre la mente non si può dire che qualcosa sia o che non sia. Usciti dalla mente non c’è Niente, Niente di Niente, ‘Niente’ assoluto. Ricordo Poonja in ‘Il Vuoto che Danza’ che dice: “Sono il Nulla che ha preso la forma di sat-chit-ananda”.
A volte i sadhaka vedono questo Niente, allora ci sono varie discussioni: mi terrorizza; mi piace perché ho visto Shiva; quella classica è “E adesso con questo Niente cosa ci devo fare? Come lo gestisco?”. Non si è in grado di avere a che fare con l’assenza di mente perché c’è ancora un soggetto illusorio che si giustappone o contrappone all’oggetto Niente.
Quando invece si è abbandonati a Dio e fusi in Lui non c’è niente da dire, nessuna domanda che possa sollevarsi, né rimane un concetto che sostenga l’oggetto Niente. È QUELLO CHE È ! Il fiume (l’io individuale) si è fuso nel mare e non c’è più. Restano una mente ed un io funzionali per vivere nel mondo (che ancora dura finché il karma che lo fa apparire non si è consumato); mente ed io verso i quali però non si è più identificati.