come avviene che dall’ego si passa alla non-mente?

Per la grande simpatia (in senso etimologico) che ho con te vorrei condividere la mia opinione. Ciò non implica alcun impegno da parte tua di far qualcosa con ciò che ti dico o di entrare in una particolare relazione con me.

Come avviene che dall’ego e dalla mente si passi alla non-mente?

Vi sono dei passaggi:

1. L’aspirante attraverso la lettura dei testi sacri e le proprie stesse esperienze dirette che gli confermano gli insegnamenti che ha letto, comprende che il mondo è un’illusione, un sogno.

2. Per una certa fase approfondisce l’esperienza diretta fino a che gli diventa chiaro che lui è l’osservatore ultimo, il percipiente, ‘the seer’ come si dice in inglese.

3. A questo punto egli può iniziare una sadhana per la liberazione – se è nato in lui tale ardente desiderio,  se non è nato inutile parlare di liberazione. Egli allora medita quante più ore possibile osservando come si forma l’immaginario nella sua mente, cioè come si forma il sogno. A un certo punto si chiede: “Se so chi sono io, perché non riesco a distaccarmi dal sogno?”. Continuando noterà che vi è una certa affettività che ha investito nell’immaginazione, nel sogno; allora, rendendosene conto, fa un passo indietro da quell’attaccamento affettivo e ciò gli permette di APRIRSI AL SILENZIO.La base del Silenzio è il non-attaccamento. L’aspirante maturo nel non-attaccamento non vede gli eventi della vita come oggetti che può gradire o non gradire, ma come carezze del Divino Amato che sta facendo di tutto per liberarlo. Perciò anche in un fallimento, si riprende subito; egli si chiede: “In quali nuove esperienze ed espansioni della coscienza vuole portarmi l’Amato con questo evento”, diventa equanime, sempre di più, fino ad arrivare al nirvana stabile.

4. Il silenzio arriva. Vi sono vari tipi di silenzio; a me capita più di frequente il silenzio che scende dall’alto, lo descrive anche Aurobindo. Se leggete “L’esperienza del non-Sé” di Bernadette Roberts*, vedrete quanti tipi di silenzio descrive. Dunque a volte scende dall’altro: impregna la metà superiore della tersa, poi progredendo tutta la testa, poi il busto, tutto il corpo. Non importa fino a che punto sia arrivato il silenzio – progredirà con la pratica –, importa che sia arrivato!

5. Ora l’aspirante ha la possibilità di fare una pratica diretta per la liberazione abbandonandosi a quel silenzio. Quel silenzio è il dissolvente di Shiva; lì non c’è ego, né pensiero, né mondo. A quel punto la pratica deve solo continuare fino a che tutta l’illusione viene dissolta. Allora l’aspirante sperimenterà stati profondi di senno desto (che è un altro nome per dire nirvana) anche mentre è in attività, disidentificandosi dalla propria forma. Dopo un certo tempo di nirvana, sopraggiunge la liberazione senza più ritorno.

Ecco che io non sono d’accordo col nostro comune amico di preoccuparsi se si è duali o no in quel silenzio. È una cosa che viene da sé. E il nirvana non sembra nemmeno un samadhi quando contempla il Sé immanifesto: sì, non c’è dualità, ma c’è solo il Percipiente ultimo, che non viene nemmeno percepito perché SEI TU, e il Soggetto ultimo non può essere percepito come oggetto – le scritture dicono: “L’occhio non vede l’occhio”. C’è un bel video di Sakshi Ma (Roberta) dal titolo “La Magia del Non Trovarsi”, vuol proprio dire proprio questo. Quando invece il nirvana contempla il Sé manifesto, vede che tutto è nirvana, tutte le forme sono la purezza sublime della non-mente del nirvana. Allora il realizzato stabilito nel nirvana effonde la Grazia tramite il silenzio che dona la pace e la consapevolezza della Verità che si è Sé imperituro, il non-nato senza tempo. Qui è la misericordia: la non-mente scende nel cuore e dal cuore effonde la Grazia nel sogno ai cosiddetti esseri senzienti. Se la non-mente resta sopra testa, quello non è nirvana, è uno stato abortito, ma un buon maestro lo fa superare subito.

Diceva Bhagavan Sri Ramana Maharshi: “Non hai bisogno a realizzare un nuovo stato. Liberati dai pensieri che hai adesso. Questo è tutto”.

* “L’esperienza del non-Sé” di Bernadette Roberts